Che noi, come d’altronde gli spagnoli, i greci, i portoghesi, gli irlandesi e forse anche i francesi, quindi in ottima compagnia, non siamo stati campioni europei di virtuosismo economico è un dato ormai assodato, ma neanche i tedeschi sono quei campioni di lealtà e probità col quale li si vuole far passare.
Ti vorrei solo ricordare che tra i parametri di Maastricht quello a cui palesemente abbiamo derogato, anche con la complicità dei tedeschi, è il famigerato debito pubblico, fissato almeno al 60 % del PIL. Si pensava che, siccome il valore superiore (nel nostro caso doppio: 120 %), appariva da almeno un biennio un processo virtuoso di riduzione graduale ma continuo (mi ricordo i grandi sacrifici per raggiungere questo obiettivo per non restare fuori dall’Europa, quindi fuori dal mondo), questo andazzo potesse continuare fino al rientro.
Ciò purtroppo non fu possibile perché vennero presi in esame, per il nostro ingresso, anche altri parametri, come la bilancia dei pagamenti correnti, l’evoluzione dei costi unitari del lavoro e di ulteriori indici di prezzi, l’incidenza degli investimenti pubblici sul disavanzo di cassa e tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine. In questa chiave di lettura politica dei parametri si aprì in sostanza lo spazio anche per chi, come noi, non risultava perfettamente in regola sulla base dei semplici indicatori economici.
In pratica la nuova moneta era troppo forte per una economia debole come la nostra, e finché l’obiettivo che si prefiggeva l’UE non sarà centrato, cioè l’integrazione politica, fiscale, bancaria, con conseguente cessione di sovranità, saremo ostaggio di questa situazione di inferiorità. Situazione che alla Germania sta benissimo, visto che gode di una posizione di grande privilegio e trae grossi vantaggi. Dopotutto, finalmente ha assunto quella posizione di egemonia europea cui tanto ha aspirato per numerosi anni.
A mio modesto avviso ci siamo cacciati in un “cul de sac”, in quanto non si era fatto i conti con l’immediata globalizzazione dei mercati che hanno aperto i loro prodotti ai paesi emergenti (specie dopo aver permesso l’entrata della Cina nel WTO), che fanno una concorrenza sleale (vedi salari e costo del lavoro), con la complicità degli stessi paesi dell’eurozona, i quali avevano sottoscritto un protocollo ufficiale in cui si impegnavano a sostenere fino in fondo la solidità e lo sviluppo ricorrendo a imposte compensative sulle importazioni da quei stati che avessero usato nei confronti dell’euro politiche aggressive basate sulla svalutazione della propria moneta (vedi la diatriba sul remnibi cinese ed il contenzioso con gli USA), ma gli interessi nazionali alla fine sono prevalsi su quelli comunitari. Tutte le promesse di difesa e agevolazione sono rimaste solo degli intenti scritti sulla carta e mai tramutati in veri strumenti di protezione.
Le famigerate riforme di cui parli, ad onor del vero, sono state tentate dai vari governi che si sono succeduti fin qui, ma prima Maroni ha avuto fortissime resistenze sulla revisione dell’art.18, nonché sulle pensioni col famoso “scalone”, tanto da doverle accantonare per la pace e coesione sociale, dopo anche Bersani si è dovuto scontrare per le liberalizzazioni con le corporazioni dei tassisti e farmacisti, mollando per gli stessi motivi di Maroni, insomma, ogniqualvolta si è cercato di fare una riforma, in ogni senso, si sono trovate sempre resistenze pazzesche.
Le riforme di cui si discute sono poi state fatte, ma sempre a discapito delle parti sociali più deboli, mentre per le banche, i manager, la finanza, le assicurazioni, non si riesce mai a riformarle, altrimenti ne soffrirebbe il mercato, si distorcerebbe la competitività, si allontanerebbe lo sviluppo ed il benessere, solo loro, però.
Mi fermo qui, altrimenti rischio di annoiare te e coloro che hanno la pazienza di leggerci
