Per non dimenticare, tra le tante date possibili, le atrocità e nefandezze contro il popolo ebraico in particolare e i deportati militari e politici Italiani, compiute dal nazismo/fascismo, con Legge 211/Luglio 2000 è stato scelto come giornata dedicata al ricordo, che non può prescindere dalla conoscenza, di dove ogni pregiuzio e odio razziale può condurci.
In uno dei suoi tanti libri Primo Levi scrisse:
"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario".
Da parte mia contribuisco, postando qualcosa che può servire a tenere viva la memoria dei giovani e meno giovani, affinchè se ne prenda compiutamente coscienza.
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Promulgate in Germania nel 1935 e in Italia nel 1938 le leggi razziali sono state il corollario ideologico dello sterminio. Il tentativo di sottovalutarne gli effetti è smentito dai fatti storici anche successivi alla Shoah.
Ne riparliamo dopo 70 anni
Scrive Marina Cattaruzza nel suo contributo La storiografia della Shoah: “Sebbene la storia della distruzione degli ebrei europei non possa andare disgiunta dalla storia del nazionalsocialismo, le due storie non sono neanche del tutto sovrapponibili”.1 Sulla falsariga di questo ragionamento, si potrebbe a rigore sostenere che non risultano neppure “del tutto sovrapponibili” la promulgazione delle “leggi razziali” naziste e fasciste e il genocidio del popolo ebraico. Ad impedirlo, se non altro, c’è la sproporzione tra i due eventi.
Dall’ideologia alla tragedia
Sarebbe infatti facile obiettare che all’epoca dell’emanazione delle leggi razziali2 nessuno avrebbe potuto preconizzare, in alcuna parte del mondo, che esse sarebbero state propedeutiche all’eliminazione fisica di tutti gli appartenenti alla “razza” ebraica: troppo questa misura eccedeva la norma, per non dire la stessa capacità d’immaginazione. Non a caso, la decisione “tecnica” di procedere alla “soluzione finale” del problema ebraico, ancorché implicito già a partire dalle prime farneticanti affermazioni “politiche” di un Hitler ai suoi esordi,3 sarebbe stata presa, secondo l’opinione degli storici, o agli inizi dell’invasione dell’Urss o, subito dopo, ovvero nel corso della conferenza del Wannsee (località nei sobborghi di Berlino) il 20 gennaio 1942.
Però, in punta di logica, si potrebbe nel contempo arguire che, se da una parte le “leggi razziali” nazi-fasciste non implicavano all’origine - pur a fronte di un uso decisamente truculento del linguaggio -, alcuna intrinseca necessità di sterminio, dall’altra esse hanno costituito pur sempre “il prius logico e fattuale”4 di questo.
Il riconoscimento di tale nesso causale consentirebbe, tra l’altro, di superare quella interpretazione ancipite della storia di cui, di recente, si è fatto interprete David I. Kertzer, il quale ha evidenziato come le “leggi razziali” fasciste “siano state, sino a poco tempo fa, poco studiate, quasi dovessero essere perdonate in retrospettiva per essere state così miti in paragone al vero sterminio degli ebrei”.5 La considerazione conseguente è improntata al più puro paradosso: ove in Germania e in Italia - aggiungeva Kertzer - esse non fossero state seguite entro breve tempo dallo sterminio di massa degli ebrei d’Europa, oggi avrebbero attirato un’attenzione molto maggiore di quanta ne ebbero in realtà.
Un’utile indicazione metodologica, proprio tesa a compensare la lacuna del mancato interesse per le “leggi razziali fasciste”, ci viene, ad esempio, dagli autori del bellissimo catalogo Dalle leggi antiebraiche alla Shoah. Sette anni di storia italiana 1938- 19456. Il volume, preparato per illustrare la Mostra storica nazionale ideata e curata dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano (Cdec) - e ospitata a Roma, presso il Vittoriano, dal 15 ottobre 2004 al 30 gennaio 2005 -, si segnala non solo per la ricchezza della documentazione, ma anche per la periodizzazione proposta. Questa, ad onta della divisione della materia in due parti ben distinte (autunno 1938 - estate 1943 e settembre 1943 - aprile 1945), rimane nella sostanza profondamente “unitaria”. “Disegno unitario che - come bene chiariscono Liliana Picciotto e Michele Sarfatti nella loro breve nota introduttiva - si apre con un cenno al conseguimento della parità dei diritti nell’Ottocento e il lungo periodo di integrazione e che si conclude tratteggiando la situazione dopo la Liberazione e la fine delle persecuzioni”.7 Di conseguenza il catalogo, al modo di un Giano bifronte, ci invita a riflettere al passato, ma per stimolarci a rivolgere il nostro sguardo al presente e soprattutto al futuro. Esemplari appaiono in tal senso le riflessioni di Amos Luzzatto, il quale, nella sua nota al testo, indugiando a definire le terrificanti potenzialità tuttora implicite nella mala pianta del razzismo, ha da parte sua osservato: “La storia ci ha dato una risposta, presentandoci nuovi massacri e nuovi genocidi, da quello dei tutsi a quello dei cambogiani, a quello più vicino a noi avvenuto nella ex Jugoslavia. Ma che cosa li collega alla Shoah, a parte la scontata malvagità umana? Io credo che, tragicamente, la Shoah sia stata un punto di svolta, uno spartiacque, avendo dimostrato che lo sterminio di una popolazione per il solo fatto di essere quello che è, di avere caratteristiche fisiche o solo una tradizione culturale diversa da quella di coloro che detengono gli strumenti della forza bruta, sia possibile senza generare in coloro che osservano o che ne ricevono notizia una reazione solidale, una reazione di rivolta, una reazione che fermi la mano dei carnefici”. Se riconosciamo come valide tali posizioni, allora la storia, da ancipite, come in precedenza l’abbiamo definita, torna ad essere unitaria. Infatti, per inquadrare la natura opaca, ambigua e distorta del razzismo nazifascista si debbono sì considerare gli eventi accaduti “a valle”, la cui tragica sequela di distruzione e di morte continuerà a rimanere emblematica nei secoli a venire, ma anche tenere nel debito conto quelli accaduti “a monte”, sinistramente propedeutici alla terribile catastrofe dello sterminio. Solo riallacciando il “dopo” al “prima” si può insomma ragionevolmente superare quello iato che, altrimenti, continuerebbe a marcare una fatale discontinuità, anche nel caso in cui, accogliendo l’invito di David I. Kertzer, ci decidessimo a considerare le “leggi razziali” oggetto di studio in sé. Non a caso, Liliana Picciotto e Michele Sarfatti chiariscono: “Antico antigiudaismo cristiano, nuovo razzismo scientifico, moderno razionalismo, nuovo spirito tecnologico, profondo spirito reazionario, recente antisemitismo politico, tutto ciò e altro ancora compose una miscela che, nel contesto del nuovo sanguinoso conflitto, produsse la Shoah”.8
Di conseguenza, se accettiamo il principio della unitarietà, allora fa parte integrante della Shoah anche quella lunga fase di gestazione che, passando attraverso i processi di emarginazione, persecuzione e violenza, sarebbe poi culminata nei vagoni piombati i quali, sovraccarichi di deportati inconsapevoli, avevano come meta Auschwitz. Non c’è migliore immagine, per rappresentare l’acme di quel lungo processo di preparazione allo sterminio, di quella del “trasporto”. Questa, in limine rispetto alla Shoah, è tuttavia altamente simbolica, in quanto ci rappresenta il rovescio della vita. Al viaggio infatti, da sempre identificato come metafora dell’esistenza, sono connessi riti di iniziazione assolutamente fondamentali per ogni essere umano. Non a caso esso è stato percepito, da Omero fino ai nostri giorni, come uno e trino. Ad onta della sua unitarietà, esso appare scandito in tre significativi momenti: la preparazione della partenza, l’esperienza di luoghi nuovi, il ritorno a casa. In genere l’“iniziato”, al termine del viaggio, torna più “saggio” ed esperto di prima, divenuto, dantescamente esperto del mondo “e de li vizi umani e del valore”. Ogni regola, però, ha le sue eccezioni. Ai partenti per Auschiwitz era preclusa ogni possibilità di “saggezza”. Per loro, beneficiari coatti ed incolpevoli di una indicibile esperienza, l’iniziazione prevista era alla morte, non alla vita. Nei rari casi in cui il destino aveva poi capricciosamente disposto in modo diverso, la “saggezza” acquisita non poteva che esplicarsi nella testimonianza. Infatti solo da testimone il deportato “salvato” avrebbe potuto sperare di trasmettere l’orribile esperienza da lui fatta a tutto il resto del genere umano; e ciò per senso del dovere nei riguardi dei “sommersi”. Di questo lascito, morale ed ideale, crediamo debbano far parte anche le “leggi razziali”, le quali non possono andare disgiunte - secondo il sentire di tutti gli uomini onesti - da quel generale emblematico sentimento di “vergogna” che Primo Levi percepì sul volto di quei “quattro giovani soldati a cavallo” dell’Armata Rossa, che, sparuto avamposto di liberatori, entrarono nel Lager di Auschwitz il 27 gennaio 1945: “Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa”9.
Un marchio d’infamia
Reiterare oggi la sofferenza suscitata da quella vergogna significa anche trovare la via per avvicinarsi, nel modo giusto, al cruciale tema delle “leggi razziali” fasciste. Chiave di volta di questo avvicinamento non può che essere la condivisione. Essa sola, ben più affidabile di tante generiche professioni di fede o di altrettanto velleitarie manifestazioni di generica buona volontà, può offrirsi quale garante per una revisione a fondo di una delle pagine più ingombranti, se non la più ingombrante in assoluto, della nostra storia recente. Infatti, anche se le “leggi razziali” sono state frettolosamente rimosse ed archiviate, non altrettanto si può dire per il marchio d’infamia che, da esse introdotto nella vita civile italiana, ci ha accompagnato in questi ultimi settanta anni della nostra storia.
Il fascismo, disonorando le più nobili ed antiche tradizioni del nostro Paese, ci ha gettato addosso il peso di una responsabilità che pesa ancora su di noi come un macigno. Ebbene, ci chiediamo: è oggi possibile fare finalmente opera di verità, dopo tanti anni di ambiguità e di silenzi? Noi pensiamo di sì. Altrimenti non ci saremmo in nessun modo azzardati a celebrare questo “Giorno della Memoria” proprio alla luce, sinistra, di quelle “leggi razziali”, ancor oggi infamia e vergogna delle “umane genti”.

