Italia: la Grande Menzogna del lavoro che non c'è

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LA GRANDE MENZOGNA DEL LAVORO CHE NON C'E'
di Giuseppe Minnella*

Il lavoro che non c’è. E’ diventato questo l’argomento principale dei telegiornali e la preoccupazione più assillante per milioni di italiani dal futuro incerto. Abbandoniamo per un momento le sciocchezze e le funeree notizie televisive ed iniziamo a ragionare sul problema in modo concreto.
Il lavoro è il fondamento dell’economia e lo stesso manca nei quei paesi in cui mancano i consumi, dove manca il progresso, la ricchezza. Può dunque questo essere un problema italiano? Se guardiamo ai fondamentali della nostra economia la risposta può essere una sola: NO!

E allora perché in Italia si dice che manchi il lavoro? Se gli italiani sono un popolo di consumatori, se a Natale i negozi di tecnologia sono stati letteralmente presi d’assalto, se i ristoranti sono pieni com’è possibile che il lavoro sia scomparso? Di certo c’è che la “scomparsa” del lavoro in Italia porterà mano a mano ad una diminuzione dei consumi, che già c’è anche se in termini di decimali, e ad un graduale, ma sempre più rapido, impoverimento del paese con conseguente ulteriore diminuzione del lavoro. Ciò che anche i più ignoranti in materia sanno è che l’economia è una catena di produzione-consumo: se uno dei due si ferma è tutta l’economia a risentirne: si ferma tutto!

Dunque veramente non c’è lavoro? Oppure il lavoro è stato portato via?
Da circa 30 anni infatti dapprima le maggiori aziende italiane, poi a seguire anche quelle medie e piccole, hanno iniziato una vera e propria marcia verso la produzione all’estero (Cina, India, Sudamerica ed Est Europeo). Tali migrazioni non erano destinate ad acquisire maggiori quote di mercato internazionale ma a sfruttare la manodopera a basso costo. Più volte abbiamo sentito da Prodi e altri politici italiani, complici a questo punto, che il problema del lavoratore italiano era la “competitività”. La mia domanda è: come si può diventare competitivi con un operaio cinese che guadagna 100 euro al mese e mangia 2 ciotole di riso al giorno? Come può esserlo sui costi il piccolo imprenditore italiano che riceveva dai grossi gruppi le commesse di produzione se il suo alterego cinese stipa 200 persone sotto un telone senza la benché minima norma di sicurezza? La risposta è ancor più semplice: non si può!

Alla totale desertificazione produttiva tecnologica italiana (in un mondo oggigiorno sempre più “Hi-tech” non esiste un produttore italiano di cellulari, tv, informatica varia! Negli anni ’80 Olivetti contendeva la leadership mondiale nientemeno che all’IBM!) si è così aggiunta una progressiva perdita di molte capacità e conoscenze che i nostri lavoratori avevano e che rendevano il prodotto italiano ineguagliabile e la manodopera qualificata. Non solo: per rendere il “made in Italy estero” uguale o per lo meno simile a quello italiano abbiamo iniziato a fornire quelle conoscenze che rappresentavano la nostra vera ricchezza!
Nel corso degli anni dunque si è proceduto ad una graduale ma inarrestabile spoliazione del tessuto produttivo italiano in quei settori (ad esempio tessile e calzaturiero) in cui l’Italia era leader mondiale e non aveva pressoché concorrenti dando così lavoro a milioni di persone. Il problema in questo campo non è rappresentato dalle aziende cinesi o di altri paesi in via di sviluppo in quanto il prodotto italiano è, o almeno era, di qualità infinitamente superiore e dunque la produzione cinese non è mai andata ad intaccare quel target di consumatore che vuole pagare e pretende la qualità del prodotto. Il problema è rappresentato semmai da quei produttori italiani che sono andati alla ricerca di maggiori utili basati sulla speculazione e sullo sfruttamento chiudendo direttamente o facendo chiudere (con l’indotto del tessile lavoravano circa 3 milioni di italiani!) migliaia di aziende e lasciando così disoccupata una massa ingente di persone.

E dove sono finiti tutti quei lavoratori di tanti posti di lavoro perduti?
Semplice: Call center, società di servizi del nulla, finanziarie hanno per anni sostituito il lavoro vero, quello delle fabbriche che pian piano iniziavano a trasferirsi all’estero non per sopravvivere ai costi italiani bensì per semplice speculazione, per rimpinguare utili sempre più importanti lasciando sul terreno nazionale disoccupati a raffica che si riciclavano nelle attività del nulla di cui sopra. Oggi però anche queste stanno scomparendo: i tanto tristemente famosi Call Center stanno chiudendo in massa e vengono spostati all’estero (moltissimi in India) tanto che oggi non si trova nemmeno quello di lavoro! Non solo: i nostri giovani, i nostri disoccupati non hanno più le conoscenze di un tempo. Abbiamo una massa di disoccupati priva di qualifiche lavorative! Una massa inerme di gente che dopo aver studiato una vita non sa fare assolutamente nulla!
L’ultima a levare le tende in ordine di tempo è stata la OMSA che lascerà a casa quasi 300 persone per trasferirsi in Serbia. Azienda in perdita? Anche in questo caso niente affatto! E ancora l’ALCOA che chiuderà in Sardegna lasciando a casa oltre 1000 persone perché sull’Isola, hanno dichiarato i dirigenti, il costo dell’elettricità è troppo alto. E qui veniamo al punto dolente: l’Italia è rimasta indietro. Le infrastrutture sono le stesse di cinquant’anni fa! Le stesse che, costruite durante il ventennio fascista, hanno rappresentato un incredibile volano per l’economia nazionale anche nel dopoguerra.
La politica anziché fungere da sprone all’amministrazione per creare e migliorare le infrastrutture è servita solo per incancrenirla sempre più con la propria corruzione e connivenza con la criminalità. Fino a ieri girava su internet un filmato che mostrava i lavoratori di una ditta cinese completare un grattacielo di 30 piani in appena 15 giorni! Certo non chiediamo questo all’Italia ma per diamine in quale paese costruire un’autostrada (la Salerno-Reggio Calabria) richiede 30 anni? Accade così che le opere italiane appena completate siano già vecchie!
Torniamo agli imprenditori: tali signori non hanno capito che dalla localizzazione avranno si nel breve termine avranno dei vantaggi ma il licenziamento dei lavoratori, la riduzione della loro capacità d’acquisto porterà inesorabilmente ad una diminuzione dei consumi e della spesa dei cittadini italiani che si ripercuoterà sui loro guadagni che verranno meno, in toto, almeno sul mercato italiano ovvero quello di riferimento per molti gruppi che hanno delocalizzato all’estero la produzione.
Ecco dunque che per qualche manager con voglia di fare soldi facili e qualche figlio di papà che ha ereditato imperi industriali senza aver sudato per un minuto in vita sua non c’è niente di più facile che far scomparire questo lavoro dal nostro paese e realizzare forti profitti iniziali. Ma questa strada, anche per loro, porta ad una sola direzione: il baratro!
La politica non interviene, è invischiata fino al collo in quanto spesso e volentieri i partiti ricevono soldi e finanziamenti da lobby, gruppi di potere, industriali: emblematici i vari scandali delle cricche che pagano a politici e amministratori case, vacanze, alberghi, ristoranti, etc. Per quale motivo farebbero ciò? Buon cuore e beneficienza? Ovvio che no.
La politica, se onesta e rivolta al fine di realizzare l’interesse pubblico italiano (e già qui inseriamo due condizioni difficilmente riscontrabili in Italia) dovrebbe intervenire con forza, la stessa che gli viene concessa dai cittadini con il voto! Le forze politiche rilevanti invece operano nella direzione diametralmente inversa con l’interesse esclusivo di realizzare il proprio scopo ovvero quello di stare al potere il più a lungo possibile. Intervenire oggi, viste le condizioni in cui i politici hanno legato mani e piedi l’Italia ad una serie di istituzioni internazionali usuraie e usurpatrici della sovranità nazionale, sarebbe già di per sé estremamente difficile ma ancora non impossibile se solo ve ne fosse la volontà ma soprattutto la capacità!
Su quest’ultima infatti i dubbi sono notevoli visto che ad esempio buona parte del Parlamento non ha idea di cosa sia il famoso “rating” o lo “spread” nonostante se ne parli da ormai un anno tutti i giorni e, assurdo dell’assurdo, dovrebbero essere loro a porre in essere le misure per calmierarlo!

La Francia annuncia l’introduzione di dazi. La Volkswagen cresce, la Fiat emigra.
Fino ad un paio di anni fa la Lega, soprattutto durante il governo Prodi, urlava a modo suo, come sempre, chiedendo l’introduzione di dazi doganali contro la merce che arrivava dalla Cina. La solita mossa propagandistica visto che in otto anni di Governo non ne hanno fatto nulla in perfetto stile Lega nord. Guarda un po’ proprio di dazi doganali ha parlato la Francia di Sarkozy pronta ad inserirli nella prossima manovra. E allora cosa dovrebbe fare l’Italia? Considerato quanto scritto prima, ovvero le difficoltà di intervento in un sistema economico così ingessato e spesso dipendente da fattori esterni, è necessario comunque intervenire. Non possiamo più assistere ad un paese schernito a piè spinto in ogni angolo del globo. Dovremmo semmai capire per quale motivo la Volksvagen procede ad acquisizioni, cresce sul mercato producendo in Germania mentre la Fiat, terminata la manna statale che l’ha sempre tenuta in piedi per un secolo a spese degli italiani, chiude stabilimenti e si prepara ad andar via dall’Italia. Dunque concludiamo: siamo in un paese che garantisce la libertà economica e quindi non può impedire ad altri di andare a produrre all’estero: bene e sia. Ma la stessa politica dovrebbe impedire a questi signori di venire a vendere in Italia introducendo dei dazi, non ai cinesi ma agli stessi italiani (!!), che rendano pressoché inutile e non conveniente la loro scelta di andare a sfruttare lavoratori stranieri al solo fine di incrementare sfruttare manodopera a basso costo. Di ciò se ne gioveranno non solo gli italiani ma tutti quegli imprenditori che hanno deciso di tenere duro e continuare a produrre in Italia nonostante la concorrenza scorretta dei loro colleghi. Il risultato? In Italia potrebbe creare un buco di offerta che verrebbe colmato da nuove aziende e con il ricavato dai dazi pagati da quelle che hanno preferito emigrare si potrebbe così finanziare la ricerca indispensabile per continuare a rimanere sul mercato e alla quale molti imprenditori rinunciano proprio per far quadrare i conti; si finanzierebbero le indennità di disoccupazione ai lavoratori di quelle imprese che chiudono non per la crisi ma per delocalizzare; si potrebbe elargire denaro fresco alle stesse imprese che faticano a trovare finanziamenti presso le banche.
Insomma una montagna di risorse che servirebbero a far ripartire l’Italia: altro che decreto Salva Italia! L’Italia questa classe politica e di presunti “tecnici” l’ha affossata! Ma d’altronde finchè saremo in democrazia dobbiamo accettare il verdetto elettorale anche se lo stesso è il risultato di partiti con potentati economici immensi alle spalle, che controllano i media e ottengono spesso e volentieri i voti dalle organizzazioni criminali. In tutto ciò non creda di scampare al nostro giudizio il 40% degli italiani che non va a votare: anche loro sono colpevoli.

Di ignavia.


*segretario provinciale Movimento Sociale Fiamma Tricolore Reggio Calabria
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