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Ecco, la musica è finita...
Martedì 11 Ottobre 2011 10:06
di Giusva Branca – Quando cominciò il diluvio qualcuno disse a Noè di non preoccuparsi, tanto si sarebbe trattato delle “solite quattro gocce”. Ecco, il momento è arrivato. Inizia a piovere insistentemente, che Dio la manda. Ma è ancora poco meno che l’inizio. Il
sistema economico calabrese – e soprattutto reggino – ha cominciato il percorso di accartocciamento su sé stesso.
Da anni veniamo tacciati di pessimismo, talvolta addirittura di oscurantismo. Era il 31 dicembre del 2008 e Strill.it augurava buon anno ai suoi lettori rompendo – more solito – gli schemi e scrivendo “La Calabria brinda e festeggia. Come sul Titanic”.
Pochi mesi dopo fu la volta di “No more ace to play. Siamo ciò che abbiamo voluto”.
Il ballo – a tutti i livelli, in tutti i settori – è proseguito, al pari di una crisi sempre meno strisciante, sempre più evidente.
Ci dicono che la crisi è congiunturale.
Bugie.
Ci dicono che è legata al cash-flow.
Bugie.
Ci dicono che è la conseguenza di quella mondiale.
Bugie anche queste, almeno nella sua genesi, poi effettivamente aggravata da quella planetaria.
Ma la differenza tra la crisi calabrese, reggina e quella del resto del sistema è evidente e rende ancora più grave, ben oltre il limite del dramma, la nostra situazione: la nostra è una crisi del sistema, quella di altre realtà è una crisi nel sistema.
Restiamo al sistema economico di Reggio che è pur sempre, di gran lunga, la più popolosa e antica città della Calabria, nonché quella che oggi, per la prima volta nella storia, esprime la classe politica dirigente guida su scala regionale.
Bene, visto che nessuno lo dice, molti lo pensano, ma a tanti resta in gola, come a Fonzie rimaneva la parola “scusa”, lo diciamo noi, ancora: l’economia reggina è stata per decenni drogata, per nulla autosufficiente, quindi drogata.
Drogata da commesse pubbliche infinite, drogata dal “Decreto Reggio”, vera e propria “minna” infinita, drogata da fiumi di denaro sporco che, una volta nel circuito, facevano comodo a tutti e consentivano di creare una classe di commercianti di alto bordo perfettamente legale.
Mai nessuno si è chiesto da dove arrivassero i soldi, mai nessuno, conseguentemente, si è posto il problema della “finità” o “infinità” dei flussi.
Scrivevamo in quell’editoriale di fine 2008: “Troppi Calabresi vivono all’ombra dello pseudo potente protempore e per loro calzano a pennello i versi di Edoardo Bennato a proposito dei seguaci di capitan Uncino: “...ai suoi discorsi son sempre presente, ma non so bene cos’abbia in mente e non mi faccio più troppe domande. E non m’importa dov’è il potere, finchè continua a darmi da bere non lo tradisco e fino all’inferno lo seguirò…”
Bene, per motivi diversi, forse – quelli si – congiunturali, i flussi, il bere che Capitan Uncino dispensava, si sono interrotti e il sistema implode, per un motivo semplicissimo: il re è nudo, il sistema, alle nostre latitudini, non c’è.
“Il sistema” – recita Wikipedia - “nel suo significato più generico, è un insieme di entità connesse tra di loro tramite reciproche relazioni visibili o definite dal suo osservatore umano o da una rilevazione strumentale ripetibile”.
Ecco, la nostra economia non risponde neppure lontanamente a tali requisiti.
Le “relazioni” che tengono in piedi il sistema – o dovrebbero – da noi tutto sono tranne che visibili o, di più, assolutamente non definite da una rilevazione ripetibile.
I decenni di economia drogata sono evidentemente irripetibili ma, di più, rappresentano una occasione persa che Dio non perdonerà: nei tempi di vacche grasse le imprese che – in spregio al concetto tipico di impresa, connesso al rischio ed al mercato – nascevano come funghi sostenute da commesse (e sperperi) pubblici di ogni genere avrebbero potuto sfruttare il momento, la congiuntura e aprirsi, effettivamente, ai mercati, a quelli veri.
I mezzi, gli strumenti non mancavano di certo, nella storia dell’umanità non è mai stato così facile globalizzare, ma qui è venuto al pettine il nodo dei nodi.
La perifericità, l’isolamento della Calabria e di Reggio in particolare hanno rappresentato lo spartiacque. Isolamento fattuale che, poco per volta – tranne rare eccezioni – si è trasferito nelle menti creando un circolo vizioso, un loop che, a sua volta, ha sempre più alimentato l’isolamento concreto.
Così, per anni, per decenni, quando le cose andavano non benissimo, ma certo si prestavano a slanci di ottimismo, le imprese che nascevano, ma anche i nuovi professionisti che si affacciavano alla ribalta, si sono sempre rivolti, nel 90% dei casi, al mercato rigorosamente locale, non hanno mai provato a fare il salto, quel salto che, ad esempio, l’impresa di Varese o il professionista di Verona ha comunque fatto verso la MittelEuropa.
Eh certo, per loro è facile, l’Europa è là, a un passo.
Verissimo, ma in quanti di noi si sono realmente indignati, percependone a pieno la pericolosità, del progressivo isolamento crescente al quale, anche sul piano dei trasporti, è stata costretta la Calabria?
In quanti, in aggiunta all’Europa hanno guardato – non a chiacchiere – al Mediterraneo, mentre – di contro – i Cinesi (che, notoriamente, non lasciano sul posto nulla di ciò che guadagnano) invadevano con i loro esercizi commerciali le nostre vie?
Diciamocelo, nessuno di noi si tiri indietro: pochissimi.
Di più: nessuno ha mai pensato, realmente a creare sviluppo vero, stabile, con delle gambe; nessuno ha mai investito realmente sulla formazione, né pubblico (dalle nostre parti formazione è sinonimo solo di soldi rubati all’UE), né privato. Anche qui la scriminante è evidente: tra chi lo ha fatto (pochissimi) e chi no passa la medesima differenza che intercorre tra il papà che, in un momento florido per la famiglia, regala un master universitario al figlio e l’altro che, in analogo periodo, gli fa trovare sotto casa una Porsche fiammante.
E oggi?
Oggi siamo soli, spaesati, senza un’alternativa, un “piano b”, pieni di debiti – pubblici e privati – e, soprattutto, con un sistema che, evidentemente non può sostenere il peso di sé stesso, soprattutto se questo peso è fatto di un tenore di vita drogato, figlio di anni di economia drogata a sua volta.
Questo sistema oggi dovrebbe rappresentare, come ha sempre fatto, il mercato di sé stesso.
E, di grazia, a chi dovrebbe vendere l’impresa, o anche il commerciante reggino? A quegli impiegati pubblici che (pur essendo dei fortunati che a fine mese, comunque, hanno uno stipendio) hanno visto erodersi giorno dopo giorno il potere di acquisto del loro denaro?
O forse a quello stuolo di professionisti che ogni giorno elemosinano pane e dignità e che, a loro volta, dovrebbero rivolgersi a quello stesso mercato del quale loro stessi non riescono più nemmeno ad essere consumatori?
O, ancora, forse il mercato dovrebbe essere costituito dalle migliaia di precari (ormai – chiamiamo le cose col loro nome, vivaddio – disoccupati a tutti gli effetti) che vagano come anime perse per le strade con un fischietto in bocca per farsi sentire sotto le finestre di palazzi da un lato sordi e dall’altro completamente incapaci (per scarsezza degli interpreti ma anche per oggettiva carenza di fondi e strumenti) di affrontare il problema?
Signori, qui ogni giorno chiudono esercizi commerciali storici, di quelli che erano passati attraverso congiunture gravissime (congiunture, appunto, non implosioni strutturali…), ogni giorno in redazione siamo travolti da lettere di gente disperata, col mutuo da pagare, Equitalia dietro la porta e, magari, un bimbo handicappato al quale il sistema non riesce più nemmeno a garantire il dovuto insegnante di sostegno all’asilo.
L’altro giorno mi è toccato di accompagnare alla porta l’ennesima giovane signora che, sfrattata, priva di un qualunque lavoro stabile non sapeva dove “mettere” la mamma anziana e malata.
Il livello minimo di assistenza sociale per le fasce deboli è saltato, l’argine è stato scavalcato dall’onda, cosa potrà accadere domani non osiamo neppure immaginarlo.
Qualcuno dice che dovremmo dispensare ottimismo: no, se questo presuppone mentire alla gente, non lo faremo. Non lo facemmo nel 2008, nel 2009, non lo facciamo neppure adesso. Non lo facemmo nella scorsa Primavera e durante la – incredibile, lunghissima – estate di sonno reggino quando indicammo come Ottobre- Novembre il periodo in cui sarebbe cominciato (si badi bene, cominciato) un lungo, lunghissimo diluvio economico che avrebbe fatto da preludio ad una lunga notte sociale.
Chi ha la possibilità di farlo e vuole “blindarsi” mentalmente, percettivamente rispetto alla comprensione di quello che accade può legittimamente farlo; noi ciò che succede là fuori lo sappiamo bene, siamo in trincea tutti i giorni e quando troppo spesso la gente scambia una testata giornalistica per un assistente sociale, per un assessorato, per un ufficio del lavoro, financo per la Procura della Repubblica, ciò significa inequivocabilmente che anche l’orchestra ha capito che il Titanic è, ormai, piegato su un fianco.
Ecco, la musica è finita…